Focus/ Utero in affitto: che cos’è, quanto costa

Focus/ Utero in affitto: che cos’è, quanto costa

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Foto di serrano1004 da Pixabay

Cosa si intende per “maternità surrogata”, “utero in affitto” o “gestazione per altri”? Le espressioni si equivalgono e indicano quella situazione in cui una donna si impegna a portare avanti una gravidanza per conto di altri e a consegnare il nascituro al committente al quale ha affittato il suo corpo.

La donna che affitta l’utero potrebbe farsi fecondare oppure potrebbe farsi impiantare un ovulo fecondato, mentre il committente potrebbe essere formato da una coppia omosessuale oppure da una eterosessuale ma impossibilitata ad avere figli.

La pratica dell’utero in affitto è illegale in Italia, ma in alcuni paesi esteri è ammessa. Si tratta solitamente di pratiche burocratiche, mediche e legali molto costose: un contratto per un utero in affitto può costare fino a 200mila euro, benché alla donna che porterà a termine la gravidanza non arrivino che 10, 20 mila euro.

Quanti genitori per un bambino?

Un bambino nato da un utero in affitto potrebbe avere almeno cinque “genitori” diversi. Sembra un paradosso? Purtroppo non lo è, vediamo perché:

  • I GENITORI INTENZIONALI
    Le prime due figure che incontriamo sono le persone che vorrebbero diventare genitori e che definiamo “genitori intenzionali”. Può trattarsi di una coppia omosessuale formata da due uomini o da due donne oppure una coppia eterosessuale o anche singoli.
  • LA DONNA CHE AFFITTA L’UTERO
    La seconda figura è la donna che presta il proprio utero, la donna, dunque, che porterà avanti la gravidanza e partorirà il bambino. C’è chi la definisce “madre surrogata”, ma l’espressione non è corretta. Infatti, chi porta avanti la gravidanza non sempre è la persona che ha donato gli ovuli.
  • VENDITRICE/DONATRICE DELL’OVULO
    Talvolta, l’ovulo non è quello della donna che affitta l’utero, ma proviene da un’altra persona “genitoriale” che fornisce il materiale biologico (l’ovulo, appunto) utile per la fecondazione.
    Da un punto di vista genetico non c’è dubbio che sia lei la “madre biologica” del nascituro, anche se la “madre” che porta avanti la gravidanza è un’altra: è quella dell’utero in affitto.
  • VENDITORE/DONATORE DEL SEME
    Lo stesso discorso si può fare per il seme maschile. Una coppia omosessuale di due donne o una coppia con l’uomo sterile ricorrerà al seme di un altro uomo che sarà il “padre biologico” del nascituro.

Utero in affitto, business is business

Il bambino che viene alla luce con l’utero in affitto nasce grazie a un atto di compravendita e infatti l’intera procedura burocratica, legale, medica è gestita da studi legali, cliniche, associazioni che si occupano dell’intera filiera della procreazione, come se fosse una merce qualsiasi.
Abbiamo adoperato il termine “donatore”, ma sappiamo bene che si tratta di venditori, spesso donne in stato di necessità che sono obbligate a cedere al ricatto dei soldi.

Avere un figlio è un diritto?

Partiamo subito da una considerazione che tutti possiamo condividere: parliamo di un desiderio umanamente comprensibile e di situazioni che spesso sono dolorose e di sofferenza. Il desiderio di avere un figlio non può, però, tramutarsi automaticamente nel diritto ad avere un figlio a tutti i costi.

Se la scienza ha fatto passi da gigante nella cura dell’infertilità maschile e femminile, se sono stati fatti progressi nelle forme di procreazione assistita, questo non può farci dimenticare che la natura umana non può e non deve essere stravolta dalla scienza. E nemmeno le leggi degli Stati possono diventare strumento per soddisfare un desiderio di una coppia o di un singolo.

utero in affitto maternita surrogata famiglia tradizionaleNon sovvertire la natura umana: siamo nati dal grembo di una mamma

Come ha sottolineato il ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, non è in discussione la qualità di un genitore rispetto a un altro:

“Il problema non è se un genitore omosessuale può essere un buon genitore, perché io ritengo che singolarmente può essere un ottimo genitore. Il problema è il modello che noi vogliamo costruire: se noi vogliamo che i nostri nipoti abbiano ancora un modello di famiglia con una mamma e un papà, se la mamma e il papà sono figure essenziali nello sviluppo identitario anche di un bambino. Non è un problema ideologico, è un problema antropologico. Abbiamo un modello a cui tutti noi siamo affezionati perché siamo nati tutti dal grembo di una mamma”.

Si negano diritti ai bambini?

Non c’è nessuna negazione dei diritti dei bambini. Nonostante la sinistra, dal Pd a +Europa, abbiano subito parlato di bambini di serie A e serie B è bene ribadire che nel nostro Paese tutti hanno i medesimi diritti..

Quando la coppia che ha fatto ricorso all’utero in affitto all’estero rientra in Italia, il genitore biologico è riconosciuto come genitore del neonato. Sappiamo che le coppie che si affidano alla maternità surrogata pretendono che entrambi siano iscritti all’anagrafe come genitori del bambino, anche se sono dello stesso sesso. Questo in Italia non è possibile, ma non c’è nessuna discriminazione nei confronti del bambino.

Utero in affitto e mercato dei bambini

Bisogna cominciare a parlare con chiarezza, perché dietro a espressioni come “maternità surrogata” o “utero in affitto” sappiamo che c’è un vero e proprio mercato del corpo femminile.

Ci sono veri e propri appuntamenti internazionali organizzati come si può organizzare una fiera commerciale, ma invece di vendere merci si affittano uteri, ovuli, seme. Un mercato della maternità, insomma, riservato peraltro a famiglie omosex benestanti, facoltose, perché per un utero in affitto si pagano da 50mila euro a 200mila euro. La tariffa scende se si tratta di donne di colore, perché queste fiere del corpo femminile – illegali in Italia- nascondono anche visioni che sembrano sconfinare nel razzismo.

Cataloghi commerciali per scegliere l’utero in affitto

Ci sono addirittura cataloghi nei quali si può scegliere la donna che affitterà il suo utero, si può scegliere la sua età, il colore della pelle, dei capelli, l’altezza, il quoziente intellettivo, il credo religioso, il livello culturale…
Che cos’è questo se non un progetto di eugenetica che ricorda molto il III Reich o qualche società futura di romanzi distopici?

La verità, al di là dei cataloghi dove si mercifica il corpo femminile, è che ad affittare l’utero sono donne in difficoltà il cui corpo viene valutato e affittato, alle quali non andrà che una somma di 10-20mila euro, mentre saranno letteralmente prese in ostaggio e cedute ai compratori che nel periodo della gravidanza potranno decidere di tutto, da quanti rapporti sessuali potranno avere alla dieta alimentare che dovranno osservare.

Questo non è progresso, non è amore, non è scienza: è una nuova forma di schiavitù regolata dal mercato, indifferente ai veri bisogni del bambino e spietata verso le donne.


Per approfondire sul tema utero in affitto:

Come funziona il business della maternità surrogata

Focus Legge 194 / Diritto all’aborto o diritto alla vita?

Focus Legge 194 / Diritto all’aborto o diritto alla vita?

 

La legge 194 è la “legge dell’aborto”? E applicare questa legge significa essere a favore dell’aborto?

Spiegare bene cosa prevede la legge 194 è utile soprattutto per capire le polemiche, i dibattiti, i confronti che periodicamente emergono in Italia. Vediamo, punto per punto, in cosa consiste la legge 194 e cosa prevede nei suoi 22 articoli.

Storia della legge

La legge 194 è stata approvata il 22 maggio 1978, dopo lunghe battaglie, manifestazioni, interventi pro e contro la depenalizzazione dell’aborto. Fino a quel momento, infatti, l’interruzione di gravidanza in Italia era illegale, le politiche di contraccezione quasi inesistenti e le donne costrette ad abortire dovevano farlo illegalmente, spesso a rischio della vita.

A spingere per la depenalizzazione dell’aborto furono, in particolare, i movimenti femministi e il partito Radicale. Nel 1976, dopo vari tentativi falliti, venne concordato, da parte delle commissioni parlamentari di Giustizia e Sanità riunite insieme, un nuovo progetto di legge unitario, ma dopo l’approvazione della Camera dei Deputati, il progetto si arenò e fu bocciato al Senato.

Fu ripresentato poco dopo e nel maggio del 1978, negli stessi giorni del rapimento e dell’omicidio Moro da parte delle Brigate Rosse, diventò legge.

Aborto sì, aborto no: i referendum del 1981

Nel maggio del 1981 gli italiani si trovarono a doversi esprimere su due quesiti referendari entrambi riguardanti la legge 194, ma completamente opposti: uno chiedeva la completa liberalizzazione dell’aborto, l’altro proponeva, invece, la limitazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) ai soli casi terapeutici.

Il primo quesito era stato presentato dai Radicali, mentre il secondo dal cattolico Movimento per la Vita. Entrambi i quesiti furono bocciati dagli italiani.

Quello a essere decisamente respinto fu quello radicale, con l’88,42% di “No” (pari a 27.395.909 voti) e solo l’11,58% di “Sì” (3.588.995 voti); mentre il quesito proposto dal Movimento per la Vita venne bocciato con il 68% di “No” (21.505.323 voti) contro il 32% (10.119.797 voti) che votò a favore.

Cosa sappiamo della legge 194?

Quando si parla di legge 194, quando ne leggiamo sui quotidiani, sui siti web o ascoltiamo servizi in radio o assistiamo a trasmissioni televisive, la definizione che emerge sempre è quella di “legge sull’aborto”.

Decenni di comunicazione a senso unico hanno di fatto stabilito una perfetta identità tra legge 194 e pratica dell’aborto.
Oggi per un qualunque cittadino italiano, dunque, c’è una assoluta identità fra il termine “aborto” e la legge 194, “la legge sull’aborto” appunto o addirittura “la legge che favorisce l’aborto”.

Se una donna rimane incinta ed è in condizioni difficili, nella sua testa scatta immediatamente un’analogia e da essa scaturisce una sola soluzione possibile: legge 194 uguale aborto. Ma è davvero così?

Cosa prevede davvero la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza

La 194 in realtà non è la legge che favorisce l’aborto, anzi è la legge che dovrebbe evitare l’aborto, poiché già nelle sue prime righe recita così:

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.

L’intervento dei legislatori, dunque, aveva un duplice scopo: da una parte certamente eliminare dal codice penale la pratica dell’aborto, che fino al 1978 era punita anche piuttosto severamente; dall’altra, però, il primo obiettivo era quello di riconoscere il valore della maternità e di tutela «dal suo inizio» la vita umana.

La legge 194 del 1978 è composta da 22 articoli e dopo il primo articolo che illustra i principi del legislatore, gli articoli successivi si occupano delle varie questioni legate all’interruzione di gravidanza.

Esaminiamo insieme gli articoli della legge

Gli articoli 2, 3 e 4 stabiliscono i finanziamenti e regolamentano attività e ruolo dei consultori, l’articolo 2 in particolare prevede in che modo deve essere assistita la donna in gravidanza nei consultori familiari, mentre l’articolo 4 riguarda l’interruzione di gravidanza entro i 90 giorni.

L’art. 5 disciplina sia le attività dei consultori familiari sia delle strutture socio-sanitarie; gli articoli 6 e 7 stabiliscono le condizioni per l’IVG successiva ai 90 giorni; l’articolo 8 si occupa dei luoghi sanitari in cui può essere praticata l’interruzione della gravidanza.

Uno degli articoli più dibattuti, soprattutto negli ultimi anni, è il 9 che tratta del personale sanitario e prevede esplicitamente la possibilità di obiezione di coscienza. Gli articoli 10 e 11 si occupano delle prestazioni ospedaliere e sanitarie e di questioni amministrative, mentre gli articoli 12 e 13 regolano le procedure sia per le donne maggiorenni, sia per le minorenni, sia per la donna in condizioni di infermità mentale.

L’articolo 14 parla del diritto della donna a essere informata e l’art. 15 dell’aggiornamento del personale sanitario; l’art. 16 fa riferimento alle relazioni sull’attuazione della legge.

Gli articoli 17, 18, 19 e 20 impongono sanzioni e pene per chi, causa l’aborto senza consenso della donna e non rispetta le modalità previste dalla legge.

L’articolo 21 garantisce la privacy della donna che ricorre all’IVG e l’articolo 22 abroga le parti del codice penale in cui l’IVG era reato.

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194: non è una legge pro-aborto, è una legge pro gravidanza

La legge 194 non liberalizza il diritto di aborto e non è una legge che lo promuove, ma è una legge che mira prima di tutto proprio ad evitare l’aborto, stabilendo quando è consentito ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.

Non vuole in alcun modo ledere o limitare il diritto all’autodeterminazione delle donne (come sostengono alcuni esponenti politici e del mondo delle associazioni che vorrebbero, quindi, cambiare la 194 in direzione di una liberalizzazione totale dell’aborto) ma tutela la donna che si trova a dover decidere se proseguire o interrompere la gravidanza.

Cosa manca alla legge 194

Quello che dopo più di quarant’anni manca ancora alla legge 194 è, paradossalmente, l’applicazione della legge stessa. Finora, dobbiamo ammetterlo con onestà, si è solo puntato a garantire l’interruzione di gravidanza, ma poco o niente è stato fatto per garantire realmente il diritto all’autodeterminazione della donna.

Eppure abbiamo visto che il principio della legge è quello di tutelare e garantire la vita, non di favorire l’aborto che, comunque la si pensi, rimane un trauma nella vita di ogni persona.

Garantire alla donna la libertà di decidere

Proviamo a porci alcune questioni pratiche: quante ragazze sono costrette ad abortire perché non sono informate adeguatamente sulle alternative all’aborto? Quante donne scelgono l’aborto non perché non vorrebbero un figlio, ma perché pensano di non avere le condizioni economiche adeguate per farlo crescere?

Nondimeno l’articolo 5 della 194 stabilisce che consultorio e struttura socio-sanitaria hanno il compito, «specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche», di esaminare «le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».

Quante donne sacrificano la loro maternità, pur desiderandola, per mantenere il lavoro? Quante ragazze scelgono di abortire per non entrare in contrasto con la famiglia? Eppure l’articolo 2 è molto chiaro, quando prevede che una delle funzioni principali dei consultori sia proprio quella di «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».

La verità è che, in un mondo ancora profondamente maschilista, la legge 194 è ormai diventata una sorta di procedura automatica burocratico-sanitaria, dove la donna è soltanto un utente standardizzato e l’esito finale della procedura è scontato: l’aborto.

La donna in questo modo non ha nessun diritto di scegliere, è solo costretta ad interrompere la gravidanza, con la complicità della propaganda di movimenti e associazioni che si proclamano ‘femministi’ e che assicurano che abortire non comporta nessun problema, né fisico né psichico.
Questa è esattamente la logica patriarcale più retriva: alla donna non può essere data altra scelta se non abortire.

Cosa vuol dire applicare la legge

Applicare la legge 194 significa permettere alla donna di scegliere realmente cosa fare, significa sostenerla in un percorso di rimozione degli ostacoli economici e sociali, significa attuare le condizioni dove lavoro e carriera professionale e cura dei figli non siano incompatibili, dove la cultura familiare, lo stato sociale, il reddito non vincolino le decisioni della donna, dove la decisione di proseguire o interrompere la gravidanza sia liberamente presa, senza alcuna costrizione diretta o indiretta.

Quando il centrodestra o la Lega sono accusati di voler eliminare la legge 194 o restringere il diritto di aborto, bisognerebbe rileggere la legge e guardare con obbiettività ai fatti: applicare la legge non significa aumentare il numero degli aborti o penalizzare i medici obiettori, ma significa difendere la vita, permettere alle donne di scegliere, assicurare che lo status economico e sociale di ogni singola donna non condizioni la sua scelta.